Conte: Populisti? Sì se significa ascoltare i bisogni della gente!E scattano gli applausi
Sembrano quasi sbalorditi quelli di prima mentre guardano quelli del cambiamento: non solo i senatori della maggioranza, non solo i ministri, ma anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sta applaudendo il discorso che lui stesso ha appena finito di pronunciare. Un training autogeno, un incoraggiamentoprima di affrontare una strada così in pendenza, un’espressione di spirito di comunità (“una squadra di governo”, un “progetto per il cambiamento dell’Italia”) che può essere un antidoto per chi si trova addosso la tensione, l’emozione della prima volta: il professore diventato capo del governo, ma anche i due giovani leader che lo hanno voluto lì, in mezzo all’Aula del Senato, a scandire quelle parole in diretta televisiva. Uno è alla sua sinistra, Luigi Di Maio – gesti misurati, quasi studiati, solo sguardi d’intesa -, l’altro alla sua destra, Matteo Salvini – più sciolto, lo sfoglio dei fascicoli, un tweet per chiamare in soccorso altro sostegno: “Bella squadra”. Sono loro, Di Maio e Salvini, che sembrano voler rassicurare il presidente: lui beve un ultimo caffè, poi una battuta, ridono tutt’e tre, Salvini gli dà una pacca di sostegno. La presidente Casellati dà la parola, Conte si leva in piedi, si abbottona la giacca, butta lì un colpo di tosse per schiarirsi la voce e parla quanto pochissimi hanno parlato dentro al Senato, forse nessuno: un’ora, 11 minuti e 13 secondi. Assicura umiltà, determinazione, passione, abnegazione, ma confessa di avvertire “pesante la responsabilità” da quando per la prima volta è entrato in quell’Aula (cioè pochi secondi prima). Un discorso che pare lunghissimo e in realtà è di poco più ampio di quello che fece – le mani in tasca – il suo predecessore Matteo Renzi. E’ lunghissimo perché il copione è il contratto di governo (“che anche io ho condiviso sia pure in forma discreta”), un canovaccio seguito in modo pedissequo, fin troppo, fino al dettaglio, fino ad accorgersi di dover procedere a salti per accelerare verso il finale.
A quel punto, d’altra parte, Conte è già riuscito a dire uno dei centri del suo discorso bipartito: il carcere per i grandi evasori, pene più alte per i reati contro la pubblica amministrazione, il rafforzamento della lotta ai patrimoni delle mafie. Parte così il coro sincopato – “Fuori la mafia dallo Stato” – che i senatori M5s hanno fatto risuonare molte altre volte nell’emiciclo di Palazzo Madama, ma per provocazione non per sostegno. Il presidente del Consiglio vuole dimostrare di condividere il programma e lo fa adeguando i gesti: guarda i banchi di Forza Italia quando parla della riforma della prescrizione, guarda quelli del Pd quando parla di riformare il sistema dell’accoglienza. Giocoforza indica un po’ di marchi di fabbrica del governo del cambiamento, parola pronunciata otto, nove, dieci volte: il conflitto d’interessi “tarlo del sistema economico”, il reddito di cittadinanza che però avrà bisogno di “una prima fase per rafforzare i centri per l’impiego“, la legittima difesa, lo stop al “business dell’immigrazione, cresciuto a dismisura sotto il mantello di una finta solidarietà“. E’ su queste parole che scroscia l’applauso più rumoroso dei 61 applausi che lo interrompono: i senatori rullano anche i piedi in terra, come al palasport. Fa notare l’Ansa che Conte non cita mai il nome della Fornero, ma parla di pensioni, non parla di “pacefiscale” ma della “flat tax” anche se definita “un obiettivo“, non si azzarda ad avvicinarsi al Tav. Non dice nemmeno “euro” ma parla della necessità di un’Europa “più forte e più equa”, che è – forse per un accidente, forse no – la stessa frase che Paolo Savona, nella domenica dello schianto istituzionale tra i partiti e il Quirinale, mise nella noterella che avrebbe dovuto convincere il capo dello Stato sulla sua innocuità.
Ma, a proposito, Conte usa la sua “terzietà”, nel senso di indipendenza e autonomia, per mettere una prima quota di autonomia per rassicurare. Quando si parla di migranti si sofferma: “Non siamo e non saremo mai razzisti”. E’ così che mette, in mezzo alla lista del contratto, un pezzo di realtà che viene da fuori, “la vicenda tragica e inquietante” di Sacko, il migrante ucciso a fucilate in Calabria, su cui il governo era rimasto in silenzio per quasi due giorni di seguito. “Era uno tra i mille braccianti, con regolare permesso di soggiorno, che tutti i giorni in questo Paese si recano al lavoro in condizioni che si collocano al di sotto della soglia della dignità – dice Conte al Senato – A lui e ai suoi familiari va il nostro commosso pensiero. Ma questo non basta. La politica deve farsi carico del dramma di queste persone e garantire percorsi di legalità, che costituiscono la stella polare di questo programma di governo”. Tutto il Senato si alza in piedi – parlamentari di maggioranza e di opposizione, i ministri – ed è l’unico momento in cui il Pd si ritrova ad applaudire con il M5s, ad eccezione della riconferma dell’alleanza Nato.
Un po’ a sorpresa per un professore universitario di diritto – un “cittadino”, come dice lui, “senza esperienza politica“, un “avvocato che tutelerà l’interesse dell’intero popolo” – la parte più ispirata appare quella politica, scandita prima dell’elencazione al limite del compilativo del contratto di governo, dalla legge fallimentare da riformare alle associazioni sportive dilettantische, dall’apertura alla Russia in politica estera al taglio delle pensioni d’oro. Conte sembra più convincente quando si fa mezzo e voce del risultato elettorale, oltre che delle due forze politiche che lo hanno scelto: “Sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo“. Dice dopo pochi secondi che occorre “offrire risposte concrete ai bisogni dei cittadini”. Ripete poco dopo: “Qualcuno ha considerato questa novità in termine di cesura con la storia repubblicana, quasi un attentato alle tradizioni non scritte. Tutto vero, dirò di più: non credo si tratti di una semplice novità, la novità è che abbiamo affrontato un cambiamento radicale del quale siamo orgogliosi“. “Il vento del cambiamento sta soffiando dappertutto” ripete. “Il popolo si è espresso e ha chiesto il cambiamento” ribadisce, quasi come un avvertimento, alla fine. Il primo a stringergli la mano è Salvini, il secondo Di Maio, il terzo Giorgetti, il quarto Fraccaro. Toninelli fa il giro del banco e arriva da dietro. E’ il timbro finale di chi dirige la maggioranza. Come in tutti i discorsi dell’inizio manca la parte del come: come, cioè, sarà possibile applicare alla realtà la sfilza di progetti, ma quella non è già più la fatica di oggi, è già quella di domani. Allora Conte comincerà a non essere più terzo, ma il presidente di M5s e Lega.